Luigi Abbruzzo

La cultura musicale nella provincia Melitana

 Introduzione

L’arrivo dei normanni in Calabria e la loro conquista realizzatesi in poco meno di tre anni (1057-1060), segnò l’inizio di un profondo e radicale cambiamento che andava ad interessare sia gli aspetti di vita quotidiana, sia l’organizzazione della società calabro-greca e meridionale in generale. Un cambiamento che ha investito l’apparato statale  e sociale nel suo aspetto burocratico e nel suo ruolo strategico culturale.

Casella di testo:  
Figura 1. Archivio della Badia Greca di Grottaferrata. Cod. Cryp E α II, f. 95v: brano musicale in notazione medio-bizantina (XII sec.)  particolare

A questa stagione di grandi mutamenti non poteva sottrarsi l’ars musicae, un aspetto quello musicale che ancora oggi è forse uno dei meno indagati; sono infatti quasi del tutto inesistenti studi o ricerche indirizzate in tal senso, anche se la letteratura musicologica e non solo musicologica, ha esaminato il fenomeno da diverse angolazioni, senza però elaborare un quadro generale di ciò che sia realmente accaduto e quali profondi cambiamenti siano avvenuti nella musica in Calabria e in tutto il meridione d’Italia dopo la conquista dei normanni.

Per secoli i calabresi, sotto il dominio bizantino, avevano imparato a vivere secondo l’uso ed i costumi dei loro “colonizzatori”, assimilando così nel tempo la loro forma mentis, la loro religione e le loro consuetudini religiose, la loro burocrazia, le loro regole economiche e commerciali, la loro concezione della società ed inevitabilmente anche la lingua ufficiale era divenuta il greco.

In questa realtà la produzione musicale finì per essere in tutto e per tutto di chiara ispirazione bizantino-orientale. La conseguenza inevitabile di questa influenza fu che la tradizione musicale dell’Italia meridionale si espresse in modo preponderante attraverso la musica sacra, divenendo portatrice dei nuovi canti della Chiesa d’Oriente, di cui Bisanzio si fece portavoce autorevole in tutta l’area del Mediterraneo.

La musica tramandataci, su cui oggi noi possiamo oggettivamente basare i nostri studi e le nostre ricerche, si ambienta in gran parte nel vasto quadro del Cristianesimo Orientale ed è perciò intuibile la sua importanza che abbraccia l’avvincente problema della civilizzazione cristiana e, nel caso specifico, della Calabria. Un mondo, questo, austero e fortemente legato alla tradizione, che esige un’esecuzione dei canti liturgici soltanto per mezzo della voce umana.

Se il mondo religioso fu l’ambiente in cui la musica bizantina espresse i suoi più alti livelli, non dobbiamo però trascurare il fatto che l’Impero Bizantino affondava le sue origini culturali anche nella civiltà ellenistica del passato, civiltà dove la musica aveva un ruolo importante nelle rappresentazioni teatrali e nel circo. Questo aspetto ci induce a pensare che doveva esserci stata, a canto alla musica ufficiale religiosa, anche una grande quantità di musica profana di vario genere e soprattutto canti popolari che traevano origine da questo filone della tradizione musicale classica del passato.

Casella di testo:  
Figura 2. Biblioteca Apostolica Vaticana. Ms. Vat. gr. 479i. Libro di Giobbe, f. 7r: suonatore di flauto (particolare).

Oggi le nostre conoscenze musicologiche riguardano principalmente la produzione musicale di tipo religioso, infatti numerosi sono i manoscritti musicali che ci sono pervenuti e non mancano gli scritti di carattere teorico-musicale, mentre quasi completamente inesistenti sono i documenti che testimoniano il repertorio di musica profana; probabilmente alcuni elementi della produzione profana popolare si possono rintracciare oggi nella musica popolare di alcuni paesi dell’area del Mediterraneo, ma essi non sono oggettivamente così determinanti affinché si possano individuare le strutture melodiche, gli stili musicali e le forme dei canti profani  di età bizantina.

Quando i normanni conquistarono le regioni meridionali della penisola italiana, la cultura musicale di queste, e della Calabria nella fattispecie, era ormai da tempo legata in modo indissolubile a quella bizantino-orientale. I melodi e i  melurgi (con questi due termini venivano identificati i compositori di musica nel mondo bizantino, con la differenza che con il primo termine si indicava un compositore che era autore sia del testo poetico, sia del testo musicale, mentre con il secondo a partire dal secolo XI si identificava solo il musicista vero e proprio. Mentre a partire dal  secolo XII i compositori vennero indicati con il termine maistor), che operavano nella penisola italiana avevano recepito integralmente gli insegnamenti dei teorici musicali d’oriente, facendo proprie le regole della composizione, gli stili e i generi musicali, la scrittura musicale e la prassi esecutiva dei brani stessi. Non possiamo però non riconoscere a essi la capacità di aver creato un repertorio musicale che, pur fedele ai dettami sopra evidenziati, esprimesse quegli elementi tipici di una cultura locale viva e legata alle proprie tradizioni.

Il processo di cambiamento che portò la tradizione musicale dell’Italia meridionale da un’appartenenza pressoché totale al mondo bizantino-orientale ad una tradizione musicale, espressione  della cultura occidentale, avvenne in un periodo relativamente breve che coincise con la nascita  e il consolidamento del regno normanno dell’Italia meridionale.

Oggi noi possiamo comprendere questa faticosa e difficile trasformazione attraverso lo studio di due aspetti della produzione musicale del tempo: il primo riguarda lo studio del repertorio musicale di tipo religioso; il secondo aspetto sarebbe lo studio della musica profana-popolare, ma ancora una volta, così come si è verificato per la musica profana di età bizantina, la mancanza  di documenti musicali scritti ci permette solo di avanzare delle ipotesi.

 

IL CANTO DEL CRISTIANESIMO IN OCCIDENTE

È un dato ormai indiscutibile che in questa fase della storia della musica, la produzione di musica sacra ha rappresentato l’aspetto più importante per la società del tempo, assumendo  essa, di conseguenza, il ruolo di musica colta ed ufficiale; attraverso essa si svilupparono e si intrapresero cambiamenti ed innovazioni di carattere teorico musicale, riguardanti le tecniche di composizione, inerenti allo stile e al genere musicale, e naturalmente in riferimento alla prassi esecutiva. Sulla base di questi elementi è per noi oggi più facile comprendere il motivo per cui la quasi totalità dei manoscritti musicali che ci sono pervenuti contengono musiche del repertorio liturgico.

La grande “rivoluzione” musicale che i normanni realizzarono, quasi inconsapevolmente, nell’Italia meridionale, ebbe inizio con il Sinodo tenutosi dal 3 al 25 agosto del 1059 a Melfi. In questa occasione il Papa Niccolò II sollevava i normanni dalla scomunica, confermava a Roberto il Guiscardo, con la dignità ducale, i possessi di Puglia, Calabria e Sicilia, quando sarebbe stata conquistata; riconosceva a Riccardo di Aversa il principato di Capua; concedeva ad entrambi le terre della Chiesa già usurpate. I due capi normanni prestavano giuramento alla chiesa di Roma e si impegnavano sotto l’autorizzazione del Papa a riorganizzare le circoscrizioni ecclesiastiche e a ricondurre le diocesi «ad fidelitatem Romanae Ecclesiae».

Quanto sancito nel Sinodo di Melfi innescò nella cultura musicale delle popolazioni del sud d’Italia un processo di trasformazione radicale. Volendo riassumere in modo sintetico quello che in realtà accadde, possiamo dire che si erano create le condizioni in cui era necessario possedere un nuovo repertorio musicale che si adattasse alle esigenze liturgiche della Chiesa di Roma. Il vecchio repertorio non era più utilizzabile. I nuovi canti si dovevano adattare alla liturgia cristiana così come era strutturata dalla Chiesa romana.

I fautori della diffusione di un nuovo repertorio musicale liturgico furono i monaci benedettini, franco-normanni, la maggior parte dei quali proveniva, come ci informa Orderico  Vitale, dal monastero benedettino di Saint’Evroul-sur-Ouche. Con essi si trasferì in Calabria (e in tutto il meridione d’Italia) tutta una corrente di cultura, nel nostro caso musicale, portatrice di fermenti innovativi e fautrice di mutamenti così profondi, la quale si mantenne viva ben oltre l’XI secolo per via delle ripetute immissioni di elementi nuovi provenienti dai centri normanni della Francia.

I religiosi delle comunità meridionali mantennero una continuità di rapporti con le case della Normandia di cui erano originari, con reciproci scambi di visite e soprattutto mediante l’introduzione di nuovi religiosi, che vi affluirono principalmente a partire degli ultimi decenni dell’XI secolo. Questo dovette indubbiamente servire da tramite ininterrotto fra questi due paesi tanto distanti tra loro, contribuendo a mantenere vive le tradizioni e le consuetudini religiose, artistiche e culturali.

Il canto liturgico che i monaci benedettini portarono nell’Italia meridionale, era allora conosciuto come il canto liturgico uticense, quel plain-chant che si era sostituito al canto gregoriano (ormai corrotto e non più fedele alla tradizione) ad opera di Guglielmo da Volpino (962-1031). Il plain-chant, restituito, alla sua purezza da quest’uomo di genio, si sparse da Fécamp agli altri monasteri normanni e in particolare all’abbazia di Saint-Evroul; di là, l’abate Robert de Grandmesnil e Robert Gamaliel, che Orderico Vitale ci presenta come «cantor egregius», lo trasferirono nell’Italia meridionale, e per molti anni nelle abbazie di Santa Maria a Sant’Eufemia e nell’abbazia di Sant’Angelo (SS. Trinità) a Mileto (in Calabria), i monaci salmodiarono il plain-chant d’Ouche.

Un forte impulso alla diffusione del nuovo canto liturgico in Calabria avvenne sicuramente per opera di San Gerlando di Besançon. Durante gli anni della sua formazione, a Besançon, fioriva il moto di rinnovamento e di riforma della Chiesa, di cui uno dei centri irradiatori più fulgidi era il non lontano monastero di Cluny. Di conseguenza la formazione del Santo subì l’influenza dalle nuove idee di rinnovamento e riforma della Chiesa, che si stavano diffondendo in tutta Europa.

Nel 1063 Ruggero I costituì Mileto capitale della sua contea, e nel 1075 ca., vi trasferì la sede episcopale da Vibona distrutta dalle invasioni barbariche.

San Gerlando giunse a Mileto sicuramente dopo il trasferimento della sede episcopale in periodo che va dal 1075 al 1080-85, quando per le difficoltà che incontrò ad affermare i propri principi decise di abbandonare Mileto. Ma al suo arrivo era stato accolto con grandi onori e venne nominato Primicerio della schola cantorum «qui primae cerae sue matriculae erat inscriptus». Il primicerio, come capo della schola cantorum, aveva il compito di istruire i diaconi, il clero e i chierici non solo nel canto delle sacre lodi, ma anche nelle discipline ecclesiastiche.

Dell’attività didattica svolta da San Gerlando durante la sua permanenza presso la dicesi di Mileto conosciamo ben poco e le notizie che abbiamo ci vengono da fonti indirette, anche perché del trattato Tractatus de musica, sul canto liturgico da lui scritto, oggi ci rimane soltanto un frammento. Le fonti storiche però gli attribuiscono il merito di aver contribuito in modo rilevante alla diffusione del nuovo repertorio musicale liturgico in Calabria e poi in Sicilia , dove fu nominato Vescovo di Agrigento, per volontà di Ruggero I.

Non certamente meno importante, per la diffusione del rito latino, fu l’arrivo in Calabria di San Bruno di Colonia (1091ca.), e la fondazione da parte del Santo del cenobio certosino, nell’entroterra calabrese, oggi nel comune di Serra S. Bruno. Gli studi fatti nell’ultimo decennio sul canto liturgico nell’Ordine certosino, hanno messo in evidenza che i monaci che seguirono San Bruno in Calabria e che provenivano da Grenoble (Francia), portarono con sè tra i loro libri liturgici anche quelli musicali.

Di conseguenza anche essi, pure se in modo meno probante rispetto ai benedettini, contribuirono alla diffusione del nuovo repertorio musicale liturgico.

1.1 La liturgia e il canto gregoriano nella Chiesa di Roma

Le cerimonie liturgiche, e quindi le preghiere e i  canti, erano legate allo svolgimento delle festività disposte dal nuovo calendario dell’anno liturgico, i momenti centrali sono la nascita di Cristo (Natale) e la sua morte e resurrezione (Pasqua). L’anno liturgico inizia con l’Avvento (quattro domeniche prima di Natale) e prosegue con Natale e l’Epifania, la Quaresima, la Pasqua, la Pentecoste e la Trinità.

Le principali cerimonie della liturgia romana  sono: la celebrazione eucaristica, chiamata comunemente messa, e l’Ufficio delle ore.

La messa è la principale manifestazione del culto e fonte spirituale della vita cristiana, essa si articola in tre parti: riti d’introduzione, liturgia della parola e liturgia sacrificale. Ognuna delle tre parti contiene numerose preghiere e canti. Alcuni di questi hanno testi variabili, che mutano cioè secondo il calendario liturgico (Proprium Missae); altre invece hanno un testo immutabile e vengono cantati sempre, tutti o in parte (Ordinarium Missae).

I brani dell’Ordinarium Missae sono cinque: Kyrie eleison o Preghiera litanica, Gloria in excelsis Deo o Inno angelico, Credo in unum Deum o Simbolo, Sanctus e Agnus Dei.

L’ordinario della messa ha un’importanza particolare nella storia della musica perché i compositori che, a partire dal XIV secolo ai giorni nostri (Machaut, Palestrina, Bach, Mozart, Beethoveen, Stravinski….) scrissero delle messe, mettevano in musica solo i testi dell’Ordinario.

Sotto l’aspetto musicale, oltre a quello liturgico, i brani più importanti del Proprium Missae sono: l’Introito, il Graduale, l’Alleluia (che in tempi penitenziali è sostituito dal Tratto), l’Offertorio, il Communio.

Gli uffici delle Ore canoniche erano otto: Mattutino (prima dell’alba), Laudi (al levar del sole), Prima, Terza, Sesta, Nona, Vespro (al tramonto), Compieta (dopo il calar del sole).

Le Ore canoniche erano celebrate entro le comunità monastiche, ma i Vespri anche nelle chiese parrocchiali. Ogni Vespro comprendeva la lettura dei salmi (di solito cinque) intercalati da antifone, il Magnificat, un inno e le litanie.

I testi che dovevano essere letti, recitati o cantati durante le cerimonie di culto erano raccolti nei libri liturgici. Il più antico ed ampio fu il Sacramentario; più ridotti erano il Graduale contenente i testi della messa e l’Antifonario, contenente i testi degli uffici. Vi erano anche libri di contenuto più specifico come: il Salterio, l’Evangelario, l’Innario ed altri.

Un aspetto certamente di grande rilevanza che influì in modo profondo in tutta la produzione musicale sacra e nelle cerimonie liturgiche stesse, fu l’introduzione del latino come lingua ufficiale al posto del greco. L’aspetto linguistico  è stato probabilmente l’aspetto più difficile da superare per una popolazione che nella maggior parte dei casi era analfabeta.

1.2 Stili, modi di esecuzione e forme musicali del canto gregoriano.

Le melodie che formavano il repertorio musicale che i normanni avevano portato con loro dalla Francia, per taluni aspetti era simile al repertorio musicale bizantino, entrambi si caratterizzavano per uno stile omofonico privo di accompagnamento, un andamento rigorosamente diatonico, ambiti melodici che raramente superano l’ottava.

Nonostante questa semplicità comune, il repertorio musicale occidentale si presenta assai più ricco e vario per gli stili di canto, per i modi di esecuzione e per le forme impiegate, rispetto a quello orientale.

Possiamo infatti distinguere nel canto ecclesiastico occidentale tre stili. Il tono di lezione (accentus), derivato dalla cantillazione ebraica, è una sorta di lettura sillabica intonata, che si svolge su una sola nota (recto tono) con lievi inflessioni melodiche ascendenti e discendenti. Il canto di tipo melismatico, anch’esso di derivazione ebraica, traeva le sue origini dai melismi e i vocalizzi soprattutto quelli che fioriscono le sillabe della parola alleluja, espressione della sacra letizia dell’anima. Il canto spiegato, che era il più comune e frequentemente impiegato, fu designato con il termine concentus e poteva essere sillabico o semisillabico. In questo secondo caso ad ogni sillaba del testo corrispondevano una, due, tre quattro o più note.

Il canto poteva essere eseguito dal celebrante e dai fedeli, ma anche dalle scholae e dai loro solisti. Il modo di eseguire i canti trae origine dal modo in cui venivano declamati i salmi nella tradizione giudaica. Essi sono tre:

-         salmodia responsoriale, ogni versetto era eseguito dal celebrante o dal solista e a lui l’assemblea rispondeva con un versetto, sempre lo stesso;

-         salmodia allelujatica, dopo ogni versetto eseguito dal solista, l’assemblea cantava alleluja;

-         salmodia antifonica, i versetti erano eseguiti alternamente dal solista o dal celebrante e dall’assemblea.

I modi di esecuzione antifonica e responsoriale erano estesi a più forme musicali del repertorio liturgico. Nei canti della messa convergono tutti gli stili di canto e i modi di esecuzione citati. Alcune parti sono eseguite in stile salmodico, ma è prevalente il canto melodico libero.

Le forme musicali più importanti degli Uffici delle Ore nel periodo storico di cui stiamo trattando, erano i salmi, gli inni, i tropi e le sequenze.

I 150 salmi ebraici, tradotti da S. Girolamo, erano i testi più frequentemente impiegati nella liturgia cantata. Infatti non solo venivano eseguiti per intero, soprattutto ai vespri, ma versetti tratti da essi erano anche impiegati in alcune parti del Proprium Missae.

Gli inni nacquero in lingua greca nella Chiesa d’Oriente (II-III sec.) e si svilupparono con il movimento ereticale degli gnostici, dai quali li apprese S. Efrem di Odessa. Nella Chiesa latina furono introdotti da Sant’Ilario di Poitiers e poi diffusi da S. Ambrogio di Milano.

Gli inni sono le sole composizioni della liturgia gregoriana che hanno il testo in versi; sono composti da più strofe che sono intonate sillabicamente su facili melodie. La melodia della prima strofa viene ripetuta per tutte le altre strofe.

La sequenza nacque come accorgimento mnemonico costituito dall’aggiunta sillabica di un testo in prosa ai vocalizzi allelujatici. Secondo la tradizione ne fu l’inventore Notker Balbulus. La sequenza era eseguita antifonicamente a coppie di versetti; il testo era in prosa e la melodia veniva rinnovata di continuo. Nel secolo XII la sequenza adottò il verso ritmato e la rima, assumendo una struttura in parte simile a quella dell’inno. La sua diffusione fu favorita dall’impiego di melodie profane.

I tropi invece nacquero dalla sostituzione con testi sillabici dei melismi di alcuni canti della messa, in particolare del Kyrie e dell’Introito. L’elemento caratteristico del tropo fu la farcitura, cioè l’introduzione di nuovi brani letterari e nuove melodie, in un preesistente canto liturgico. I tropi persero poi il carattere religioso e scomparvero dall’uso. Dopo aver assorbito andamenti profani e popolari, furono utilizzati nelle parti musicali delle sacre rappresentazioni.

1.3 La teoria e la struttura modali.

Il repertorio gregoriano si basa su scale eptafoniche di genere diatonico appartenenti a otto modi. I modi gregoriani, forse derivati dagli oktoechoi bizantini, raggiunsero forma e definizione stabile intorno al X secolo, e si distinsero in autentici e plagali: le scale plagali si estendono una quarta sotto al relativo modo autentico.

Ogni modo autentico ha in comune con il suo plagale la nota finalis (che è la nota su cui di solito terminano i brani), perciò ci sono quattro finali: re, mi, fa, sol. Oltre alla finale, un’altra nota caratteristica è la repercussio, o tono di recitazione, intorno alla quale muove la melodia. La repercussio si trova di solito una quinta sopra la finalis nei modi autentici, una terza sopra la finalis nei modi plagali. Fanno eccezione i modi III, IV, VII.

 

1. 4 La scrittura musicale.

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Figura 3. Le quindici famiglie della notazione neumatica (secondo Dom G. M. Suňol).

L’invenzione della notazione neumatica ebbe lo scopo di favorire una migliore trasmissione del repertorio musicale, ma in origine questa notazione rimaneva legata alla tradizione orale e non pretendeva di sostituirla. Essa era un aiuto alla memoria dei cantori: il “notatore” cercò di fissare sulla pergamena il gesto chironomico (chironomia è il movimento della mano che indica nello spazio la melodia nelle sue due linee essenziali di ascesa e di caduta); a tal fine egli si servì degli accenti e dei segni d’interpunzione, che assunsero un significato musicale e furono chiamati neumi.

Casella di testo:  
Figura 4. Biblioteca Nazionale di Madrid Ms. 19421. Tropario, f. 32v: brano musicale in notazione normanna (redatto in Sicilia, XII sec. ca.).


Ciò avvenne verso la metà del secolo IX, quando si posero per iscritto certi brani la cui esecuzione era piuttosto rara e rischiavano perciò di non essere ricordati.

Dopo la fase di transizione del canto liturgico alla tradizione manoscritta, gli elementi costitutivi della notazione, i neumi, si sono evoluti secondo determinati rapporti genetici e con una varietà di tipi in parte dovuta a peculiarità regionali. Nacquero così le grandi famiglie neumatiche .

Tuttavia è subito il caso di precisare che l’apparizione d’un tipo di notazione in un certo paese fu condizionata da molteplici e talora imprevedibili fattori: alterne vicende politiche; riforme degli ordini monastici e loro trasferimento; migrazioni di monaci etc.

Accadde così, che la notazione di tipo normanna, con cui erano scritti i codici musicali che i monaci uticensi avevano portato dalla Normandia, dove S. Evroult e Rouen erano gli scriptoria più importanti, venisse utilizzata anche nel sud Italia. Un esempio importante è il Tropario ms. 19421 della Biblioteca Nazionale di Madrid, redatto in Sicilia nel XII secolo ca., in notazione normanna.

 

 

 

 

 

LA MUSICA SACRA E PROFANA

Nel complesso panorama musicale medioevale europeo, parallelamente alla produzione musicale sacra destinata solo alle funzioni liturgiche, a partire dal X secolo incominciarono ad affermarsi monodie sacre, sia in lingua latina sia nelle lingue volgari. Le prime erano di carattere paraliturgico e quindi eseguite nelle chiese (uffici drammatici, drammi liturgici), le seconde, extraliturgiche, erano cantate fuori dai luoghi ufficiali del culto (laudi, cantígas).

All’incirca nella stessa epoca (IX secolo) apparvero i primi canti profani in latino e in volgare (chansons de geste), ma  maggior sviluppo ebbe successivamente la lirica profana nelle lingue d’oc (trovatori), d’oil (trovieri) e in alto-tedesco (Minnesänger).

Purtroppo, allo stato attuale delle nostre conoscenze, non siamo in grado di affermare con assoluta certezza sè i normanni, nell’intraprendere la conquista dell’Italia meridionale, abbiano portato con se anche parte di questo nuovo repertorio musicale.

Senza alcun dubbio, però, possiamo sostenere che esso da tempo faceva parte della loro cultura musicale; ragion per cui, siamo fortemente convinti che un popolo così fiero di appartenere alla propria stirpe, non possa aver rinunciato ad un repertorio di canti che ormai da tempo era parte integrante della propria tradizione musicale, segno altresì  di una società europea che verso la fine dell’XI secolo segnò il passaggio dai comportamenti rozzi e feroci dei primi signori feudali a usanze meno cruente e costumi più gentili.

2.1 Monodie sacre in latino: uffici drammatici e i drammi liturgici.

Gli spettacoli teatrali dei quali si dilettava il popolo nell’epoca del Basso Impero erano stati severamente criticati e vietati dai Padri della Chiesa romana. Il bisogno di teatro si fece di nuovo avvertire nel clima culturale creato dalla cosiddetta Rinascenza carolingia (IX secolo) e si realizzò nelle chiese con azioni sacre. Si osservò che alcuni episodi della vita di Gesù Cristo, soprattutto quelli che riguardavano la sua passione e morte, sono esposti nei Vangeli in uno stile narrativo che contiene i germi di un’azione teatrale. Fu sufficiente, all’inizio, rendere dialogico il testo –narrato o/e cantato – e distribuirlo fra due o più diaconi o cantori, che assumevano così ruoli di attori, mentre i fedeli venivano coinvolti anche come spettatori.

Il passaggio dal momento liturgico al dramma sacro rappresentato si attuò gradualmente a partire dal X secolo in alcune chiese della Francia. La prima fase fu quella degli uffici drammatici, nati da canti degli Uffici delle ore o della Messa, secondo il medesimo procedimento dal quale si erano sviluppati i tropi. Quindi erano brani del repertorio liturgico a cui vennero via via interpolati nuovi testi e nuove musiche. Uno dei più antichi uffici drammatici è la Visitatio sepulcri che era cantato nell’abbazia di San Benedetto a Fleury-sur-Loire all’inizio del X secolo.

Il dramma liturgico si sviluppò successivamente, nei secoli XI-XIII. I testi dei drammi liturgici erano in latino: in prosa, o in versi, o in prosa e versi mescolati. I vari brani erano eseguiti da diaconi, chierici o cantori, e ognuno di essi rappresentava un personaggio dell’evento sacro. L’esecuzione avveniva in chiesa e l’azione si svolgeva davanti l’altare, con un essenziale apparato scenico e con costumi.

I materiali melodici con i quali sono costruite le parti musicali dei drammi liturgici sono vari, pur avendo tutti una vasta matrice del repertorio gregoriano.

La maggior parte dei drammi liturgici svolge fatti salienti della vita di Cristo, nei due momenti più significativi, liturgicamente espressi nei cicli di Pasqua e Natale; inoltre parabole, figure e fatti dell’Antico Testamento.

I drammi liturgici si diffusero soprattutto nei maggiori centri religiosi francesi, in Baviera e in alcune parti dell’Italia. Tra i più antichi che ci sono pervenuti , ricordiamo lo Sponsus nella sua versione dell’abbazia di San Marziale a Limoges (XII secolo); in questo testo per la prima volta il dialogo in latino è inframmezzato da interventi in lingua volgare, e la melodia ci offre alcuni dei primi esempi di musica polifonica.

2.2 I canti profani in latino.

Dall’epoca di Carlo Magno (768-814) fino al XIII secolo, ci è pervenuta una quantità considerevole di componimenti poetici in latino nei quali la scansione del verso per mezzo dell’accento sostituisce la scansione in base alla quantità delle sillabe del verso classico. Una buona parte di questo repertorio poetico è di carattere vivace e sovente licenzioso e perciò è stato attribuito ai clerici vagantes o studenti nomadi, i quali nell’XI e XII secolo vagabondavano per l’Europa, prima che fosse invalsa la consuetudine di fissare la residenza presso una università. La musica di queste composizioni però è rimasta finora in gran parte indecifrata; le melodie sono scritte per lo più in neumi e, in mancanza di una trascrizione sicura, sono destinate a giacere sepolte nei manoscritti. Lo stesso si dica dei componimenti o planctus per la morte di re, regine e principi, e di altre composizioni di carattere ufficiale o pubblico, alcune delle quali pare risalgano addirittura al VII secolo, e anche dei canti su versi di Orazio, Giovenale, Virgilio e altri poeti latini. Fra le composizioni ufficiali il canto del X secolo in onore di Ottone III (983-1002) è interessante come uno dei primi esempi di canto profano la cui struttura è modellata sulla sequenza.

 Casella di testo:  
Figura 5. Biblioteca Nazionale di Parigi. Ms. lat. 887. Tropario provenzale di San Marzial de Limoges: menestrello e giullare (XI sec. ca.).

2.3 Le “chansons de geste”.

 Le chansons de geste francesi sono poemi epici in lingua indigena che celebravano le imprese degli eroi dei tempi andati ed erano declamate in musica dai jongleurs, o menestrelli nomadi. Il jongleur era più che un menestrello; il suo compito era quello di intrattenere e divertire. Egli sapeva cantare e suonare e fare acrobazie; era abile nel compiere i giochi di destrezza con i coltelli e nel mettere alla prova un orso ammaestrato. Si trovava a suo agio nel castello come nella strada maestra; partecipava alla celebrazione di un sposalizio a corte o allietava il tedio di un pellegrinaggio. Poteva anche essere alle dipendenze di una nobile famiglia in qualità di esecutore “stabile”. Padrone di un’arte modesta era molto apprezzato in un’epoca che ignorava i giornali e la televisione. Era magari messo al bando dalla Chiesa, ma portava la gaiezza nella vita degli uomini.

Le melodie, su cui egli declamava le chansons de geste, sono andate praticamente perdute. Un frammento appartiene, a quanto pare, alla Bataille d’Annezin di Thomas de Bailleul; un altro, unito a una volgare parodia, è citato nel dramma pastorale di Adam de la Halle (c1250-88), Li Gieus de Robin et de Marion.

Questi frammenti sono molto brevi, e il gusto moderno non sa spiegarsi come potesse stare ad ascoltare un lungo poema declamato su di una formula che si ripeteva sempre uguale. Probabilmente l’interesse dell’ascoltatore si concentrava sulla narrazione, non sulla melodia.

Probabilmente la musica aveva uno scopo pratico, ma nello stesso tempo essa manteneva qualcosa dell’incantamento primitivo, specie di formula magica che sopravvive tuttora nelle supplicazioni iterate della litania.

La mancanza di esempi scritti è dovuta, ovviamente, al semplice fatto che non c’era bisogno di metterli per iscritto, essi venivano tramandati oralmente. Oggi però siamo in grado di conoscere le modalità di esecuzione delle chansons de geste, questo grazie ad un trattato scritto nel 1300 da Johannes de Trocheo, che pare abbia insegnato all’Università di Parigi.

2.4 La lirica profana: Trovatori, Trovieri e Minnesänger.

A partire dall’anno Mille si diffusero in Europa nuove lingue nazionali le quali negli usi quotidiani soppiantarono il latino volgare. Dalla metà dell’XI secolo in Francia e in Germania le nuove lingue trovarono anche impiego letterario e diedero vita a produzioni liriche nelle quali musica e poesia si univano. Nacque così la lirica dei trovatori, dei trovieri e dei Minnesänger: prime testimonianze della poesia profana europea e insieme di quello spirito cavalleresco-cortese che contrassegnò la “seconda età feudale”.

Questo movimento artistico sorse nelle regioni meridionali della Francia ad opera dei trovatori; essi si esprimevano nella lingua d’oc, o provenzale. Si estese poi ai trovieri che vivevano nella Francia settentrionale e usavano la lingua d’oil, l’antico francese, e successivamente ai Minnesänger i quali, nella fascia meridionale dei paesi germanici, poetavano nella lingua medio-alto-tedesca.

Per le ragioni che ora esporremo, di questo movimento artistico musicale, se influsso vi fu nelle regioni dell’Italia meridionale, esso fu dovuto soprattutto all’attività dei trovieri.

Casella di testo:  
Figura 6. Biblioteca municipale di Arras. Ms. 139 (657) f.156v.: Chanson de Halle (XIII sec.) (particolare).

Poeti-musicisti nella lingua d’oil, essi furono attivi nella Francia settentrionale. La loro attività artistica iniziò sotto l’influenza dell’arte provenzale, che vi fu introdotta da una nipote di Guglielmo IX, Aliénor d’Aquitania, la quale sposò nel 1137 il re di Francia Luigi VII, e successivamente Enrico II Plantageneto d’Inghilterra. Fu dalla sua corte in Normandia e da quelle delle sue figlie, Maria e Aélis, andate spose a due dei più grandi signori di Francia, i conti di Champagne e di Blois, che si diffuse la lirica dei trovieri.

Il continuo scambio culturale, già sottolineato precedentemente, tra i normanni dell’Italia meridionale e la loro terra d’origine, continuato anche dopo la loro conquista delle regioni meridionali d’Italia, ci induce a pensare che la produzione poetico-musicale dei trovieri possa aver influenzato anche la musica profana in lingua volgare della Calabria e del meridione d’Italia in questa particolare fase della sua storia musicale.

 

 

 

 

Bibliografia Generale

Abbruzzo L., Musica e canto bizantino, in La civiltà bizantina, Editoriale Jaca Book S.p.A., Milano 2001, pp. 325-338.

Brumana - B. Monterosso R., Troubadours e trouvères, in Deumm, vol. IV, UTET, Torino 1966, pp.607-620.

Cfr. Cattin G., Il medioevo I, in Storia della musica, vol. 1/I**, E.D.T. Edizioni di Torino, Torino 1987.

Cfr. Hiley D., Western Plainchant, Oxford 1995.

Hughes A.(a cura di), Musica medioevale fino al Trecento, in Storia della Musica, vol. II, Garzanti Editore, Milano 1991, pp.107-127; 251-302.

Cfr. Occhiato G., Robert de Grandmesnil: un abate «architetto» operante in Calabria nell’XI secolo, in Studi Medievali, 3ª Serie, XXVIII, Spoleto 1987.

Vitale O., Historia ecclesiastica, PL 188, III, 13.col, 268.

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