Per la storia della città di Mileto
dalle origini all'età di mezzo

Di Giuseppe Occhiato

1 - Età pre - normanna
Anteriormente all'età normanna, durante i cui anni Mileto acquistò una certa notorietà per le vicende che la tennero legata a Ruggero d'Altavilla e alla sua corte, la cronologia della cittadina è immersa nella nebulosità delle leggende e delle congetture riprese a catena a partire dal Barrio al Bisogni, dal Marafioti al Fiore, dal Calcagni al Cimaglia e al Piperni, e così di seguito fino ai giorni nostri (Taccone Gallucci, Naccari, Pititto, Pata), anche se in mezzo a tante mitiche fantasie brilla di tanto in tanto qualche sprazzo di verità storica, come avremo occasione di far notare. Mileto, nelle pagine oscure dell'alta età di mezzo, attraversa tuttavia le stesse vicende politiche, sociali, economiche, di decine e decine di centri bizantini di analoga consistenza sparsi per la Calabria e coinvolti nelle sanguinose guerre fra bizantini, musulmani e longobardi, senza contraddistinguersi né emergere in particolar modo dai documenti se non soltanto verso i secoli IX e X, quando fa la sua apparizione come castrum nelle cronache celebranti le imprese arabe o i minuscoli avvenimenti biografici dei Santi calabro - bizantini. Dopo il passaggio ai fasti della storia registrato nella seconda metà dell'XI secolo, le sue vicende si identificano dapprima con quelle della corte comitale di Ruggero e successivamente, trasferita la capitale da Mileto a Palermo, con quelle chiesastico - religiose dei due grossi poli - vescovado e abbazia benedettina - senza più nulla che, sotto il profilo storico, ne contrassegni la vita politica e sociale separatamente dalla cattedra vescovile o dalla dignità abbaziale, tranne che per qualche episodio di guerra guerreggiata fra bande angioine e aragonesi nei territori limitrofi, o per qualche notevole impennata nel campo delle arti figurative, come ad esempio nel XIV secolo alla corte dei Sanseverino. Esauritosi il breve ruolo giocato dalla civitas normanna, poiché gli interessi della dinastia tendevano verso la vicina Sicilia, Mileto decadde da possibile centro di gravità per l'intera regione e la Calabria riprese la sua antica vocazione di "terra di transito".
Tralasciando di parlare degli avvenimenti già noti, qui si vuol affrontare, sia pure per sommi capi e con la consapevolezza che non si potrà mai scrivere la parola fine su un argomento così delicato e tanto scarsamente documentato, la complessa e ancora insoluta questione riguardante le origini della cittadina: questione che di tanto in tanto torna alla ribalta per via della resistenza a lasciar cadere la leggenda di una ctísis greca, avanzata per primo dal Barrio e perpetuatasi fino ai nostri giorni. Uriele M. Napolione e Vito Capialbi, invece, a questo proposito costituiscono un'eccezione. Pur scrivendo in un'età in cui la critica storica non ha ancora affondato completamente le radici nelle certezze dello scavo d'archivio e dell'interpretazione rigorosa dei documenti, dissentono da quanto era ritenuto come acquisito anche dagli studiosi locali e rifiutano l'ipotesi della ctísis greca, per fermarsi, in questa ricerca delle origini, al X secolo, l'uno, e all'VIII, l'altro.
Riprendere, allo stato attuale delle conoscenze, il discorso della ctísis greca sembra ancora oggi piuttosto azzardato, tanto più che lo stesso nome di Mileto, piuttosto che essere ricollegato ai fondatori Milesii (da Barrio in poi), o alla radice "melit" (da Mezzacasa), può essere più puntualmente ricondotto al termine latino maletum (lat. volg. meletum). Più pertinente sarebbe perciò attribuire l'origine del nome alla presenza nella zona di una piantagione di meli, donde Maletum, poi Malita (in Cicerone, Ad Atticum, III, 4), indi Melitum (in Malaterra, passim) e Miletum, sulla scorta di quanto si rileva in G.Alessio. D'altro canto, le attestazioni scritte e le testimonianze archeologiche in tal senso sono pressoché inesistenti, se si eccettua solamente una statuetta bronzea, già ricordata da P. Orsi.
Seguendo, perciò, le testimonianze di cui disponiamo, si può solo arrivare a provare la presenza nella zona di un nucleo abitativo in età romana. La sua esistenza, infatti, sembra essere certa o quanto meno documentata in due distinti momenti: in età repubblicana (I sec. a.C.) e in età imperiale (inizio II sec. d.C.). La documentazione consiste in una citazione da parte di Cicerone e in una scoperta archeologica.
È inutile dire che la citazione fatta da Cicerone ha sollevato interpretazioni divergenti tra i filologi e gli storici, incerti fra Malta e Mileto. La questione sembra esser stata risolta con una parola definitiva da G. Carugno, il quale accoglie una precedente ipotesi avanzata da A.G. Amatucci, e ad essa apporta nuovi elementi per confermarla. Il brano ciceroniano in questione è il seguente: "Statim iter Brundisium versus contulí ante diem rogationis, ne et Sicca apud quem eram periret et quod Melitae esse non licebat" (Ad Atticum, III, 4). E' superfluo ripetere in questa sede le convincenti argomentazioni di Carugno, le quali provano in via pressoché definitiva come il termine Melitæ non possa essere confuso con Malta ma vada tradotto e identificato con Mileto, un oppidulum in cui era ubicato il fundus dell'amico Vibio Sicca (Ad Atticum, III, 2), presso il quale trovava ottima ospitalità "Ibi tamquam domi meae scílicet", così nella epist. 6 del libro XVI). Lo scritto di Carugno non solo prova l'equivalenza Melita = Mileto, ma ci offre anche l'esatta localizzazione del fundus Siccae, che era appunto Mileto e non altra località.
In questo podere ci doveva essere pure la residenza di Sicca, la quale non poteva essere un'abitazione qualsiasi, ché se Sicca godeva dell'amicizia di Cicerone, doveva essere un notabile agiato" e doveva possedere una villa rustica di grandi dimensioni, una di quelle ville che formavano come una rete nel territorio del municipium di Vibo. Nel 1939, in una località della immediata periferia di Mileto denominata Villa o Cultura del Vescovo, venivano messi in luce i resti della parte urbana di una villa agricolo - residenziale" in cui la presenza di alcuni mosaici pavimentali (in opus tessellatum e opus sectile) "dichiara l'agiatezza e la larghezza di mezzi di un piccolo latifondista". F. Costabile ritiene in proposito che tale insediamento non costituisca una presenza isolata ma "la traccia superstite di un razionale sistema di sfruttamento agricolo del territorio attorno all'area urbana del municipium di Vibo Valentia nel I secolo dell'Impero, così come appare per i territori di altri municipia bruzi meglio studiati, quali Rhegium e Locri". Quanto alla cronologia dei mosaici, Costabile constatando l'ottima esecuzione dell'opus tessellatun e la sintassi decorativa rientrante nella tradizione nord-africana, propone una datazione al primo secolo d.C., tra la fine dell'età claudia e l'età traianea. Lucia Faedo non è d'accordo su questo legame con la tradizione nord - africana e attribuisce i mosaici ai primi decenni del II sec. d.C. Cronologicamente, siamo lontani dall'epoca del viaggio di Cicerone a Vibo, che avveniva nel 58 a.C. quando si rifugiava in casa di Sicca; ma la villa di Mileto potrebbe, nonostante tutto, essere identificata con quella del fundus Siccae, ritenendo che le strutture murarie possano risalire al primo secolo a.C. e che la decorazione musiva possa essere stata eseguita più tardi, ossia agli inizi del secondo secolo d.C.
In ogni modo, che sia appartenuta o no all'amico di Cicerone, la villa rustica attesta una presenza romana in Mileto agli inizi del secondo secolo dopo Cristo.
Tanto basta per far cadere l'ipotesi di Capialbi e innalzare la cronologia di Mileto almeno al primo secolo a.C.

 

Mileto, Mosaico romano al momento del rinvenimento
 
   
Mosaico romano
 
Dopo queste due attestazioni risalenti ad età romana, la storia della cittadina rimane avvolta nel limbo dei secoli e nell'oscurità delle fonti fino al IX secolo d.C.; non viene citata dagli Itineraria antichi né dalle carte di cancelleria né dalle relazioni alto-medievali di viaggi da Roma in Sicilia né dai testi agiografici del periodo fino al X secolo, quando già però la riscopriamo con una interessante novità concernente il suo sito. Infatti l'ubicazione della Mileto medievale non è più quella dell'oppidulum dove è stata rinvenuta la villa romana ma è quella del castrum bizantino, che si trova spostato di circa due Km verso sud-est; essa non giace più su di una pianura ma si estende su un rialzo collinare dal quale domina un gran tratto della consolare Via Popilia che da Vibo, snodandosi lungo la vallata del fiume Mesima, conduceva verso Nicotera.
Che cosa è successo in tutto il periodo precedente? Quando e perché il cambiamento di sito?
Non disponendo di testimonianze dirette, si può tentare di rispondere indirettamente, per analogia con quanto succedeva in quei secoli in Calabria, dando uno sguardo principalmente al movimento demografico degli altri insediamenti abitativi.
Osservando, infatti, la storia della Calabria altomedievale, notiamo due grandi fenomeni che caratterizzano profondamente il periodo, a partire soprattutto dal VII secolo: la riellenizzazione generale della regione e le incursioni musulmane.
Entrambi i fenomeni risultano abbastanza studiati ed approfonditi, ed esiste ormai una tale letteratura in proposito che non è nemmeno il caso di tentare sia pure una breve sintesi di essi. Entrambi si sono spesso rivelati fattori interdipendenti, tali da trasformare completamente il volto della regione in ogni suo aspetto: politico, amministrativo, militare, religioso, sociale, economico, demografico e topografico. Sta di fatto che si determinarono consistenti migrazioni con la conseguente scomparsa di centri antichi e la creazione di nuovi insediamenti in seguito all'abbandono delle coste e al popolamento delle zone interne. Sorsero o si consolidarono così, castra, castella, corìa. Un quadro insediativo completamente nuovo. Dai primi castra, sorti presumibilmente fin dal VII-VIII secolo quali presidi o rifugi, si passò alla formazione di centri urbani, favoriti dalla riconquista di Niceforo Foca e dalla riorganizzazione del thema di Calabria operata fra IX e X secolo, e su quelli si attestò la vita della regione fino ad oggi per molti di essi.
Il castrum di Mileto, in questa nuova configurazione demoantropica, si trova dislocato ancora più lontano dall'ex munícipium di Vibo (ora Vibona), città che subì ripetute, disastrose incursioni arabe negli anni 827, 850, 916, 938, 965, e nel 983 fu rasa al suolo. Il trasferimento di Mileto dal sito d'età romana a quello d'età bizantino - normanna comportò il suo avanzamento da oppidulum a castrum, e come tale ci è presentato da G. Malaterra. Gli studi recenti consentono di individuare il quadro insediativo con i nomi dei centri formatisi tra il IX e il X secolo, e fra essi è contemplato anche Mileto. In questo caso non si trattò di un nuovo centro costituitosi ex novo ma solo del cambiamento di sede del piccolo nucleo, che trasferì con sé pure l'antica denominazione di Mileto: un po' la stessa vicenda che si ripeterà dopo il terremoto del 1783, sia pure in senso inverso, quando i miletesi sceglieranno di ritornare sull'antico sito.
Il trasferimento avveniva in una località naturaliter munita (edito loco, secondo la definizione del Barrio) in quanto era costituita da un rilievo allungato tra due fiumi e con i fianchi ripidi, e con una sola possibilità di accesso, facilmente difendibile. Gli arabi, infatti, non si limitavano ad attaccare i centri costieri ma si spingevano fin nell'interno; per questo i miletesi, che si sentivano pressati da vicino dai musulmani che puntavano frequentemente su Vibona, lasciarono l'oppidulum per andarsene ancora di più verso l'interno. Il castrum doveva sicuramente essere costituito da un borgo difeso da un fortilizio, e con la sua posizione naturale privilegiata, dominante le vie d'accesso alla vallata del Mesima, soprattutto la via Popilia, posta a sud della collinetta sulla quale si arroccava l'abitato, presidiava gran parte delle zone centro - meridionali della regione, particolarmente il territorio del Poro, che si apriva a ventaglio a nord-ovest, e la piana del Mesima, che si estendeva a sud - est.
Sarebbe interessante riuscire a stabilire con maggior precisione in quale momento di questo ampio periodo medio - bizantino (VIII - XI secolo) sia avvenuto il trasferimento della cittadina, se cioè assai presto, quando aveva inizio la riellenizzazione del Brutium e si veniva istituendo il ducato di Calabria (intorno alla metà del VII secolo) o se più tardi, dopo il distacco delle chiese di Calabria da Roma, quando la Regione era già divenuta di lingua, di diritto e di rito bizantina (verso la metà dell' VIII secolo) o se molto più tardi ancora, come alcuni studiosi sono propensi a credere. Lo scarno corpus testimoniale sembrerebbe predicare a favore di un trasferimento piuttosto tardo, quando cioè, dopo la riconquista di Niceforo Foca, il ducato di Calabria venne riorganizzato e vennero riparati i danni di guerra sia in Puglia che in Calabria (fine IX secolo), o quando si formò il thema di Calabria, fra il 938 e il 956, anche se potrebbe invece essere avvenuto prima. Ma se non possiamo stabilire con esattezza questo punto, possiamo però affermare che già nel X secolo la sua presenza è certa e che nell'XI secolo è già un centro notevole, il più cospicuo del territorio, se si tiene conto che viene scelto dal conte Ruggero come sede della costituenda provincia Melitana.
Le attestazioni sono diverse, anche se non moltissime, a partire dalle citazioni riscontrabili negli scrittori musulmani e nei ßìoi dei Santi italo-greci, fino alla presenza nella cittadina della primitiva chiesa parrocchiale della Cattolica. E anche se tali testimonianze si attestano tutte nel X secolo, ciò non toglie assolutamente che Mileto non sia esistita antecedentemente, anzi, se già nel X secolo è frequentemente citata, è da supporre l'esistenza anteriore di un "castron" bizantino di una certa importanza, anche dal punto di vista strategico. Questo sembrerebbe far presupporre la notizia dello storico arabo Ibn-al-Athir che la ricorda nell'anno 982 quale rifugio sicuro per le truppe di Ottone Il dopo la sfortunata battaglia di Punta Stilo del 15 luglio di quell'anno. Se Mileto non fosse stata un centro fortificato, non avrebbe potuto garantire nessuna sicurezza ad un esercito disanimato e in rotta, in cerca di un rifugio. Ma, ancora prima, di Mileto viene fatta menzione nella contestata Cronaca di Arnolfo o Chronicon saraceno-calabrum, secondo il quale nel 946 Tropeum, et Nicotrum, et Militum a Saracenís de Cicilia captae sunt: sed a Calavrensibus in Calimuro multi de illis occísi sunt. Quanto ai ßìoi, la cittadina viene ricordata con il toponimo "Malaitos" (lettura Malétos) nel ßìoi di S. Saba e in quello di S. Elia da Reggio detto lo Speleota (vissuto all'incirca fra l'870 e il 960), composto da autore ritenuto sincrono, con l'espressione "Malitou".
La fase bizantina di Mileto, oltre che dalla presenza della chiesa della Cattolica, che fu officiata fino al tardo Settecento e venne quindi trasferita nella nuova Mileto è attestata da numerosi ritrovamenti di monete e da una iscrizione rinvenuta sul fusto di una colonna, un manufatto unico nel suo genere. E anche se monete e colonna dimostrano di appartenere al sec. XI, ciò non fa che attestare anche nella Mileto normanna la continuità del rito greco stabilitosi nei secoli precedenti.
Dalla chiesa della Cattolica prendeva nome uno dei cinque quartieri in cui era divisa la cittadina entro le sue mura all'epoca dello spaventoso sconvolgimento tellurico che il 5 febbraio 1783 distrusse l'abitato con tutte le sue architetture monumentali sia sacre che civili. La catastrofe fece sì che si sentisse la necessità di ricostruire la città altrove, cosa che venne fatta ad ovest del vecchio abitato, a distanza di 2 Km circa in linea d'aria da esso.
Il nuovo sito aveva già qualche abitazione preesistente; era attraversato dalla grande strada delle Calabrie denominata Via Regia Vecchia o Via Regie Poste e ad esso confluivano alcune vie di comunicazione laterali provenienti dalla stessa Mileto vecchia, secondo quanto ci attesta il disegno planimetrico del 1784.
Ma la cosa più straordinaria è che il trasferimento avvenne proprio nell'antico sito dell'oppidulum romano citato da Cicerone e dove esisteva la villa rustica in cui furono rinvenuti i mosaici pavimentali, quasi a voler suggerire una vera e propria riappropriazione del sito originario, ancor più suggestivamente evidenziato dalla denominazione della località sulla quale sorse, località che apparteneva in parte al principe di Mileto e in parte anche al vescovo e che era chiamata la Villa: forse un lontano ricordo dell'antica villa di Vibio Sicca, la cui presenza aveva conservato e tramandato attraverso tanti e tanti secoli l'antico nome.
 
Racconta Goffredo Malaterra che, di fronte alle terribili imprese degli Altavilla, tutti i calabresi si arresero quasi senza combattere, consegnando loro anche i castra più fortemente difesi; si comportarono, prosegue il cronista normanno, come gli abitanti di Vibona che in pratica si consegnarono ai conquistatori normanni non solo senza colpo ferire, ma addirittura munera plurima dantes. Tennero uguale atteggiamento gli abitanti del castrum di Mileto?
Anche se non tutto fu facile come vorrebbe farci credere il biografo di Ruggero, la campagna di conquista della regione si svolse apparentemente con manifesta rapidità: meno di cinque anni bastarono ai due audaci fratelli per strapparla a circa sei secoli di dominazione bizantina e poter gettare così le basi del futuro regno normanno del Sud. Ma la conquista non fu certo né facile né rapida: per sottomettere definitivamente taluni centri come Aiello, Cariati, Catanzaro, Bisignano, Santa Severina, fu necessario un notevole impegno di forze, e l'arco di tempo in cui vennero conquistate San Martino, San Marco, Castrovillari, Montalto, Cosenza, Martorano, Malvito, Maida, Nicastro, Oppido, Cassano, Rossano, Squillace, Stilo, Scilla, Scalea, Tropea, si amplia in un più lungo periodo che va dal 1054 al 1065, ben più ampio che non i cinque anni sopra riferiti. Fra questi centri figura anche Mileto. Questo castrum, strappato alle forze bizantine da Roberto il Guiscardo, venne poi concesso nel 1059, haereditaliter deliberatu, a Ruggero, il più giovane dei suoi fratelli giunti al suo seguito in Italia meridionale, per tenerlo più stretto a sé come alleato nella campagna di sottomissione della regione.
Da allora Mileto divenne residenza abituale del conte. Da quello stesso anno il castrum, da lui adeguatamente trasformato e viriliter firmatum, andò acquistando sempre maggior peso nella politica espansionistica normanna, tanto da divenire ben presto capoluogo di quella che fu definita provincia Melitana dal Malaterra, nelle cui cronache spesso ricorre il nome della cittadina. Ruggero "la prescelse a sua dimora e le restò affezionato anche quando toccò l'apice della gloria e della potenza".
Pur avendo, infatti, costituito in Sicilia, a Troina, una specie di centro amministrativo e burocratico dei suoi domini, "per il resto preferiva trascorrere parte del suo tempo a Mileto, dove alla fine morì e per un certo tempo furono custodite le sue spoglie". E fu alla corte di Mileto che egli esplicò una vasta attività di potenziamento della propria strategia militare e politica e intessé una fitta trama di rapporti con capi di stato e pontefici.
Ruggero ne fece così uno dei poli più cospicui della regione, affidando ad esso un ruolo ben preciso nell'organizzazione amministrativa, economica e religiosa del territorio, e sanzionandone la supremazia sulla restante regione con l'istituzione di una zecca. Lo sviluppo e l'importanza sempre crescente della cittadina furono infatti legati non solo alla funzione strategica che il giovane condottiero le assegnò ma anche a quella organizzativa dei distretti ecclesiastici che la vide inserita fin dai primi anni, da protagonista, nel piano programmatico di rilatinizzamento definito dal Guiscardo e perseguito di concerto dai due fratelli. Fu in virtù e in funzione di tale strategia che nell'ambito delle sue mura venne con tutta probabilità eretto un palatium quale sede della corte comitale e centro amministrativo, e venne innalzata extra muros, sulla collinetta di fronte all'arce cittadina, l'abbazia benedettina della SS. Trinità.
Ma non bastò. Come per altre città, sedi comitali normanne (Andria, Mottola, Castellaneta, Satriano Lucano) che i normanni avevano scelto quali centri amministrativi del loro potere politico, anche per Mileto, residenza abituale di Ruggero, fu chiesta ed ottenuta la dignità vescovile: "si creava così una efficace corrispondenza delle Sedi comitali con le Sedi vescovili". Entrambe le sacre istituzioni si concretarono in monumentali complessi architettonici, edificati con eccezionale larghezza di mezzi e secondo i sistemi e le disposizioni in uso nella grande esperienza del romanico vissuta allora da tutto il mondo occidentale; e Mileto così poté aggiungere, in questo sperduto angolo dell'Italia meridionale, le sue grandiose fabbriche cultuali a quel bianco mantello di chiese di cui si andava rivestendo, secondo la poetica espressione di Rodolfo il Glabro, l'Europa dell'XI secolo.
L'accentramento nella sede miletese dei poteri civili, militari e religiosi, mentre imprimeva un impulso di rinnovamento al preesistente nucleo bizantino, si traduceva così anche in vasti e notevoli interventi sul tracciato urbano, del quale determinava i poli aggregativi con l'elevazione delle sedi del potere politico-territoriale e militare (palatium - castello), da un lato, e del potere religioso (sede vescovile e sede abbaziale), dall'altro. Ciò consentì la promozione della cittadina da castrum a civitas, in cui "il fulcro topografico e simbolico della città era rappresentato dalla cattedrale". Lo stesso monaco cronista la segnala anche quale urbs, davanti alla quale erano stati innalzati duo castella", probabilmente delle fortezze a presidio dell'abitato: tutto ciò fa supporre che già nel 1052, ossia all'epoca della nota lite fra Ruggero e Roberto, "Mileto aveva superato la condizione di borgo fortificato".
Accanto alla cattedrale, ad oriente della zona absidale, sorgeva, sul punto sommitale della collinetta sulla quale era arroccato l'antico nucleo cittadino, il palatium o castello: questa seconda denominazione si è conservata nella memoria storica della cittadina fissandosi nella designazione di uno dei cinque quartieri della città murata, fino al terremoto del 1783 e, dopo, nella toponomastica locale della zona della vecchia Mileto, oggi tutta campagna. Del castello esistevano dei ruderi fino alla scomparsa della città; ce ne offre la testimonianza un autore locale, Ignazio Piperni: "Vicino a detta Cappella (sc. la cappella funeraria della famiglia Sanseverino, adiacente all'abside centrale del duomo) vi era anticamente un forte Castello, di cui presentemente si ne vedono puoche reliquie". Null'altro è, per ora, possibile dire attorno al castello normanno, mentre per ciò che concerne le altre due fabbriche ruggeriane, per quanto abbattute dai terremoti e smantellate dalle successive, reiterate delapidazioni dei miletesi stessi, conosciamo quel tanto che ci consente di ricostruirne l'impianto planimetrico.
Dal punto di vista dell'incidenza di questa architettura nel quadro generale del romanico europeo, l'organismo della SS. Trinità è quello che riveste maggiore importanza, anche perché la chiesa annessa costituisce una pagina di fondamentale rilievo nel panorama dell'architettura medievale di tutta l'Italia meridionale e della Sicilia per il suo influsso sui monumenti chiesastici successivi.
L'edificio ecclesiale, da ciò che se ne ricava dai ruderi e secondo come appare rappresentato in alcuni disegni del XVI e XVII secolo custoditi presso il Collegio dei Greci a Roma, era dotato di una sorprendente chiarezza ed armonia fra i vari corpi assai rare in tutta l'area culturale del Mezzogiorno. Il corpo longitudinale presentava uno schema basilicale a tre navate, diaframmate da quindici colonne di recupero su cui insistevano ampie arcate a tutto sesto; la copertura era a travature lignee, secondo la tradizione paleocristiana nella ripresa del nostro romanico centro-meridionale. La zona di maggiore interesse era costituita dal corpo orientale, che si sviluppava in un profondo coro tripartito di tipo cluniacense, desinente in tre absidi lievemente graduate, mediato da un ampio corpo trasversale sporgente oltre i muri d'ambito delle navate. I bracci laterali del transetto ripetevano il quadrato della crociera, ed erano collegati all'interno della navata da archi; anche il triplice coro era internamente collegato mediante tre archi alla crociera ed alle ali del vano trasversale. Robusti pilastri cruciformi in corrispondenza del quadrato di crociera sorreggevano la cupola-tiburio molto alta, e ad essi erano addossate delle colonne, secondo un orientamento di origine islamica. Con questa tipica disposizione iconografica, lo chevet della Trinità ricordava molto da vicino le costruzioni ecclesiali monastiche maturate oltralpe, e precisamente le chiese abbaziali benedettine della Normandia, delle quali si trapiantavano qui, in Calabria, i sistemi compositivi per mezzo di monaci architetti venuti dall'abbazia di St. Evroult-en-Ouche. La lunghezza totale della chiesa era di 74 ml circa; quella del corpo longitudinale, di ml 44. La larghezza delle navate era complessivamente ml 28 (le minori, ml 5,50 ciascuna, quella mediana, ml 10,90); le misure del transetto erano infine di ml 39 circa per 10,90, con una sporgenza di ml 5,70 su ciascun lato. L'interasse delle colonne era di ml 4,85 circa.

 

Abbazia SS. Trinità dopo terremoto 1659

Chiesa Abbaziale SS. Trinità, Planimetria

 
Poco o nulla conosciamo circa l'alzato della fabbrica ecclesiale, soprattutto all'esterno. Oltre al tiburio, un altro elemento verticale decorava l'organismo con la sua mole turriforme, il campanile, edificato in linea con il prospetto occidentale della chiesa. Tale struttura, di forma quadrata, più bassa della cupola-tiburio, sorgeva all'interno della navata a cornu Evangelii; la sua intrusione aveva obbligato i costruttori ad eliminare una colonna da questo lato dell'edificio. Con la sua tozza forma quadrangolare, doveva contribuire in misura prevalente a dare un'impressione di monumentalità e di robustezza alla facciata della fabbrica.
La decorazione delle superfici murarie esterne, tutte in opus quadratum, doveva essere movimentata da piatte lesene concluse da archi a pieno centro, sul tipo di quelle che decorano le masse murarie del duomo di Gerace (fine XI secolo). Se ne possono notare le tracce nei ruderi superstiti, e precisamente in un tratto della parete d'ambito settentrionale presso l'attacco del transetto, e nel frammento dell'absidula meridionale. In quest'ultimo elemento sono perfettamente visibili gli esordi di alcune lesene, che con motivo analogo a quello svolgentesi sul dorso dell'abside originale della cattedrale geracese, sono atti a suggerire la decorazione scomparsa, consistente in cinque snelle paraste a tutt'altezza culminanti in archetti a pieno sesto. Tale assetto decorativo doveva ripetersi identico sulle altre absidi e, secondo ritmi più ampi, lungo le pareti laterali della chiesa.
L'abbaziale della Trinità, con la tipica configurazione sopra descritta, costituiva, a motivo della coordinazione innovativa degli spazi che, pur legati a matrici diverse (quella tardo-antica nella navata e quella benedettino - cluniacense nel presbiterio), si unificavano in una originale concezione architettonica, il modello antesignano in Italia meridionale di una serie di impianti ecclesiali legati alle sue soluzioni: i quali, pochi in Calabria (duomi di Mileto e di Gerace; ma che sappiamo delle altre chiese vescovili, tutte scomparse, sorte a Nicastro, a Nicotera, a S. Marco Argentano, a Squillace, a Catanzaro,a Scalea, ecc.?), sono più numerosi in Sicilia (duomi di Mazara del Vallo, di Catania, di Messina, di Cefalù e di Monreale).
Recenti rinvenimenti hanno consentito di collegare anche il duomo di Mileto con la soluzione sperimentata per la prima volta nella vicina abbaziale benedettina.
La cattedrale, dopo il palatium e l'abbazia, era la terza delle fabbriche - mediante le quali Ruggero I aveva manifestato il suo favore verso il suo luogo di residenza. Non conosciamo l'anno della consacrazione, ma è da supporre che la sua costruzione non si sia protratta molto a lungo dopo l'istituzione della cattedra vescovile (1081 ca) sia perché non era un edificio di dimensioni molto imponenti, sia perché considerazioni di natura affettiva ci fanno ritenere che il suo fondatore non avrebbe tollerato che la sede episcopale di recente fondazione, dovuta principalmente alle sue premure, rimanesse troppo tempo sguarnita di una propria cattedrale.
I ruderi della zona absidale esistenti sub divo e i due schizzi planimetrici contenuti nel manoscritto del Napolione, mentre consentono la restituzione ideale dell'edificio, fanno sì che sia anche possibile dare una coerente interpretazione del monumento e conseguentemente ricondurla alla sua originaria concezione.
La chiesa era una non molto vasta costruzione basilicale, con il corpo longitudinale spartito in tre navate da due teorie di colonnine geminate (quattro coppie di sostegni su ciascun lato) introdotte presso l'ingresso da due sostegni più massicci isolati. I diciotto appoggi, privi di basi, erano tutti monolitici e quasi tutti in granito grigio e su di essi insistevano, secondo la testimonianza del Napolione, degli archi acuti, dal che si può supporre un discreto slancio verticale dell'edificio. La copertura doveva essere in rispondenza con l'atmosfera tardo-antica dell'interno; infatti era originariamente costituita da un tetto continuo con capriate in vista; al contrario della Trinità, sulla crociera non vi era il tiburio, ed il campanile era originariamente costituito da una torre separata da corpo della chiesa, quindi successivamente innalzato a vela sulla parete della facciata occidentale.
All'insieme del corpo trinavato si annetteva ad est la zona presbiteriale a gradoni, di chiara impronta normanna, comprendente un transetto sporgente ed un coro centrale non molto profondo concluso da un'ampia abside e affiancato da altre due absidi minori alquanto arretrate, precedute da due ambienti molto corti; tale configurazione costituiva una variante ridotta dello schema benedettino, non rendendosi forse in origine necessaria una pluralità di altari come per le costruzioni monastiche.
Le dimensioni dell'edificio, ipoteticamente ricostruite, erano le seguenti: ml 42 circa per la lunghezza totale della chiesa, escluso l'atrio antistante; ml. 26 per la lunghezza della parte longitudinale; la navata mediana era larga circa ml 7,50, e ciascuna delle navi laterali ml 2,80 circa. Tali misure rispetto a quelle davvero imponenti della Trinità, ci suggeriscono una fabbrica di non eccessive pretese.
Eccezionale soluzione linguistica è, invece, da ritenersi l'impiego dei sostegni binati nei colonnati: rarissimo esempio in tutta l'architettura chiesastico-romanica se si esclude qualche chiostro monastico (un altro solo esempio è presente nell'architettura romanica centro-meridionale, ed è rappresentato dal duomo di Trani, in Puglia). Essa non va spiegata, come suggerisce lo studioso tedesco H.M. Schwarz, con l'indisponibilità di elementi di appoggio più resistenti, bensì con una scelta stilistica riconducibile ai sistemi compositivi tardo-antichi di derivazione nord-africana e scaturente da esigenze di ordine figurativo oltre che strutturale. I due colonnati su cui, come si è detto, insistevano archi acuti, avevano sei valichi per parte, con un interasse fra coppia e coppia di circa ml 4,20. La presenza degli archi acuti in questo punto della Calabria è spiegabile solo con apporti arabi mediati dalla stessa corte di Ruggero, il quale stava per completare la campagna di conquista della Sicilia: sappiamo dal Malaterra e dagli scrittori arabi tradotti da Michele Amari che nel palazzo di Mileto il gran Conte ricevette numerose delegazioni di musulmani. Potrebbe tuttavia correlarsi a soluzioni analoghe presenti nell'architettura campana e siciliana, anch'esse però messe in rapporto con consuetudini arabe.
Non poche sono le dissimiglianze nei confronti della vicina abbaziale, da cui abbiamo visto dipendere l'organismo vescovile per l'assetto icnografico generale; ma se questo diverge da quella per l'assenza della cupola, per la riduzione dei cori presbiteriali, per la novità dei sostegni accoppiati, per la presenza degli archi acuti, per il mancato allineamento delle navate minori con gli invasi dei cori laterali, ad essa tuttavia si ricollega per averne accolta la tematica di fondo consistente nella fusione pienamente risolta dei due corpi maggiori di diversa ascendenza: transalpina, quella del sancta sanctorum, e tardo-romana quella delle navate. Come per la Trinità, il momento di più alto significato non consiste tanto nel fatto che nella cattedrale siano presenti due lezioni culturalmente distinte, quanto piuttosto nel fatto che in entrambe le chiese esse siano riproposte in una combinazione nuova ed originale, mai sperimentata prima.
Entrambe le fabbriche avevano una cospicua decorazione sculturale e architettonica, la maggior parte della quale era di origine classica, romana. La località di provenienza di tale materiale di riporto è stata da sempre individuata nell'antica Hipponium (Vibo Valentia), scomparso centro romano prossimo alla cittadina miletese, ricco di monumenti in stato di abbandono in età normanna, e pertanto spogliato dei suoi marmi (tempio di Proserpina e numerosi altri templi ed edifici pubblici). Un discreto numero di colonne doveva però provenire da locali cave di granito, mentre altro materiale, oltre a colonne di dimensioni più modeste, potrebbe essere stato prelevato dalla villa romana (ascritta agli inizi del II sec. d.C.) scoperta in Mileto nel 1939, e non completamente esplorata.
Accanto al materiale d'età classica, vi era però nelle due fabbriche miletesi anche una notevole decorazione plastica pertinente al linguaggio romanico. Ne sono prova i numerosi reperti conservati presso il locale museo statale o presso piccole collezioni private cittadine. Fra le cose più rappresentative, alcuni capitelli a gruccia ed un rilievo con figura di basilisco, originariamente frammento di portale. Quest'ultimo offre qualche generica possibilità di rimandi alla plastica pugliese contemporanea, anche se di fronte ai livelli di raffinatezza e di maturità raggiunti da quella il rilievo miletese si qualifica per una certa durezza ed arcaicità elementare dei mezzi espressivi. Molto più rifiniti ed elaborati invece i capitelli a stampella; specialmente quello che su una delle facce presenta, in un rilievo vigorosamente modellato, una leonessa in atto di azzannare una volpe acquattata, rivela doti di finezza espressiva degne della migliore plastica romanica, pugliese o siciliana.
Dal punto di vista della cronologia, la fondazione della cattedra vescovile di Mileto è caratterizzata, così come succede per tant'altre chiese calabresi, da dubbi e incertezze, essendo andati perduti in gran parte i documenti originali o risultando manipolati quasi tutti quelli che sono pervenuti fino a noi. In ogni modo, le vicende che sono all'origine dell'istituzione possono, con una certa attendibilità, essere riassunte come segue.
Nella riorganizzazione dei distretti ecclesiastici conseguente alle scorrerie dei Longobardi e alle incursioni dei saraceni che avevano provocato la distruzione delle chiese e la quasi totale scomparsa delle cattedre vescovili, i normanni ridiedero vita e nuovo impulso alla Chiesa calabrese, ripristinando o ristrutturandone le diocesi e allo stesso tempo sottraendole all'autorità di Bisanzio per riportarle sotto quella di Roma. Si venne così a determinare uno scenario nuovo. In tale quadro rinnovato, per ciò che concerne la Calabria centrale tirrenica, la diocesi di Nicotera risultava ricostituita e aggregata a Reggio Calabria, Nicastro riconfermata suffraganea di Reggio, Amantea e Tropea fuse in una unica diocesi con sede a Tropea, Taureana e Vibona, devastate dai Saraceni rispettivamente nel 951 e nel 983, trasferite ed aggregate in tempi successivi alla chiesa miletese sotto l'unico e nuovo titolo di diocesi di Mileto.
Quando e come avveniva ciò? Poiché il primo atto di cui siamo in possesso è la bolla Supernae miserationis respectu del 1081, indirizzata da Gregorio VII al primo vescovo miletese, Arnolfo, con la quale, ad istanza del conte Ruggero "filio nostro Rogerio glorioso Comite rogante"), veniva convalidato e ratificato il trasferimento della diocesi da Vibona a Mileto, è da presumere che il trasferimento sia avvenuto, ad opera dello stesso Conte, qualche tempo prima. Difatti, anteriormente all'emanazione della bolla citata, si era dovuta risolvere la vertenza sorta fra la S. Sede e Ruggero intorno a chi spettasse consacrare i primi eletti delle nuove chiese di Mileto e di Troina. Poiché Vibona era chiesa suffraganea di Reggio C., per quanto riguarda Mileto, che di Vibona era erede, la questione era se il nuovo vescovo dovesse essere consacrato dal metropolita reggino o potesse invece essere consacrato dal pontefice. Gregorio VII scrisse perciò al Conte una lettera databile ai primi del 1081, Non dubitet prudentia tua, comunicandogli di aver affidato la soluzione della vertenza a una commissione composta da Ursone, arcivescovo di Bari, da Ugone, vescovo di Fermo, e da un Legato Apostolico. La decisione fu con tutta evidenza a favore della consacrazione papale, per cui il pontefice sanzionò subito la traslazione della sede a Mileto, stabilendo che i suoi vescovi dovessero essere sempre consacrati da Roma e restare immediatamente soggetti alla S. Sede. Dopo il 1081, si verificò l'aggregazione di Taureana, in epoca imprecisata, ma comunque prima del 1086, anno in cui il conte Ruggero rilasciava il suo "Privilegio" di dotazione della nuova diocesi, designato come "Sigillum aureum", nel quale risultano già traslate a Mileto tanto Vibo quanto Tauriana. L’incorporazione di Tauriana a Mileto venne riconosciuta da parte del papa Urbano II nel 1093 con il Breve Potestaten ligandi. Nel frattempo, Ruggero e Urbano II si erano incontrati due volte: nel 1088, a Troina, e, nel 1091, nella stessa Mileto; in tali incontri avranno avuto nodo di confermare le disposizioni riguardanti la nuova diocesi nonché l'esenzione nullius diocesis della Trinità che era stata creata nel frattempo.
Altre bolle papali si susseguirono negli anni seguenti a confermare la costituzione della cattedra miletese con i suoi privilegi, ribadendo soprattutto l'esenzione del vescovo da ogni metropolita e l'immediata soggezione alla cattedra di Pietro: affermazioni, queste, presenti già nella Supernae miserationis respectu come si evince perentoriamente dal Breve Officii nostri di Callisto II del 1122 indirizzato al vescovo Goffredo II (1119-1130): "con la forza del presente privilegio sanciamo che la chiesa di Mileto continui a restare in modo speciale sotto la giurisdizione della Sede Apostolica, e tutti i tuoi successori, come te e i tuoi predecessori, siano consacrati per mano del Romano Pontefice".
Non sono noti i confini precisi delle scomparse diocesi di Vibona e Taureana, mentre il territorio della nuova chiesa, come viene presentato nel Sigillum aureum, è fissato "dal distretto di Maida fino a Reggio". Nel diploma ruggeriano sono elencati tutti i possedimenti e la popolazione servile in dotazione alla nuova diocesi. La descrizione dei suoi confini era contenuta in una platea, purtroppo perduta, del 1570, fatta rogare dal vescovo Inico d'Avalos d'Aragona (1566-1573); essa tuttavia è pervenuta fino a noi in quanto è stata raccolta e trascritta da U.M. Napolione nelle sue "Memorie" settecentesche. E da supporre che quelli siano stati i confini della diocesi fin dalla sua fondazione; come tali si mantennero fino al 1979. Essi sono visualizzati nel Foglio III del libro Rationes Decimarum Italiae di D. Vendola.
Una rete, quasi altrettanto vasta, di chiese e di possedimenti terrieri appartenenti all'abbazia benedettina della SS. Trinità si affiancava al patrimonio della chiesa vescovile, con la quale l'istituzione monastica, come vedremo, entrò presto in conflitto.
La Trinità era stata fondata dallo stesso conte Ruggero anteriormente alla cattedra vescovile, fra il 1062 e il 1070; la chiesa annessa fu consacrata il 29 dicembre 1080 dall'arcivescovo Arnolfo di Cosenza (o di Reggio Cal., secondo alcuni storici). Nei suoi primi anni di vita costituì un priorato dipendente dalla casa madre di Santa Maria di Sant'Eufemia, ed era retta da Guglielmo, monaco di origine normanna che aveva preso l'abito proprio nell'abbazia del golfo lametino; ben presto però venne distaccata da Sant' Eufemia per essere posta direttamente sotto la protezione della S. Sede con la bolla del 1098 di Urbano II diretta all'abate Urso. Fu subito arricchita di numerose donazioni, dipendenze e privilegi dallo stesso fondatore e da altri baroni normanni (in particolare dai Conclubet), sì che in breve tempo, in virtù dei diritti feudali acquisiti, divenne la più potente fondazione monastica latina di tutta la Calabria meridionale. Tale patrimonio, convalidato da Urbano II nella stessa bolla del 1093, fu confermato successivamente da Pasquale II nel 1101, da Callisto II nel 1122 e da Alessandro II nel 1170 e nel 1179. Nel luglio del 1101 Pasquale II era a Mileto, per condolersi con la corte normanna della morte del Conte; in tale occasione venne fatta una solenne riconsacrazione della chiesa abbaziale. Il vecchio Conte giaceva ormai da quasi un mese nel suo sarcofago, collocato accanto a quello della seconda moglie, Eremburga, nella navata destra di quella chiesa che egli aveva voluto che venisse innalzata in forme grandiose perché vi fossero custoditi i mausolei della propria famiglia.
Distrutto dal terremoto del 1659, il monastero veniva riedificato, fra il 1660 e il 1698, secondo un piano meno ambizioso dell'impianto normanno. Il sisma del 1783 ne decretava la definitiva scomparsa.
Si sono conservati fino ai giorni nostri, nonostante i rigori del tempo e le continue delapidazioni, non scarsi ruderi pertinenti alle due fasi del complesso monastico; alle testimonianze monumentali si affiancano alcuni disegni planimetrici del XVI e del XVII secolo, custoditi presso il Pontificio Collegio Greco di Roma, riproducenti il monastero nella sua fase pre-terremotale (il primo di questi disegni è datato 1581) ed in quella settecentesca, che hanno consentito ai ricostruire graficamente la pianta dei due organismi architettonici che si sono succeduti nel tempo.
Morto il Conte, trasferita la capitale da Mileto a Messina prima e, quindi, a Palermo dalla reggente Adelaide, ebbe inizio il lento declino della cittadina; le controversie, sia quelle intestine, fra vescovi e abati, sia quelle esterne, fra istituzioni cittadine e signori feudali, certo non giovarono a mantenere il prestigio raggiunto quando era alla guida della provincia Melitana. Mileto restò per qualche decennio ancora solo quale meta di pellegrinaggio di Ruggero II e della sua corte in quanto nella chiesa abbaziale erano custodite le tombe del fondatore della dinastia e dei suoi familiari.
Tramontato lo splendore della corte normanna, vescovado e abbazia tuttavia mantennero nel corso dei secoli una posizione fra le più eminenti in seno alla Calabria per la consistenza dei rispettivi patrimoni, per i privilegi, il potere e l'influenza di cui continuarono a godere fra tutte le istituzioni dell'Italia meridionale e insulare. Sul finire del XII secolo, fu tra le mura della Trinità che Riccardo Cuor di Leone, re d'Inghilterra, scelse di sostare quando, nell'autunno del 1191, attraversò il Sud della penisola in viaggio per la terza crociata in Terrasanta. In quell'anno si conservava ancora la turris lignea della quale si era servito il Guiscardo per espugnare il castello e la Città.
Ma un complesso economico - agrario così vasto come quello dei benedettini, con esenzioni, diritti e prerogative tanto ampie, non poteva non porsi in concorrenza con i feudatari laici del territorio, ma non poteva neppure non destare le gelosie degli stessi vescovi miletesi, con i quali gli abati vennero non di rado a contrasto a causa dei rispettivi diritti. Del resto, era fatale che accadesse: Mileto era contemporaneamente sottoposta alla giurisdizione vescovile ed a quella abbaziale, e gli ordinari diocesani non tolleravano quella che consideravano una diminuzione della loro autorità a causa dello straripante potere civile e religioso degli abati che andava estendendosi sempre di più in Calabria e in Sicilia. L'esenzione dell'abbazia equivaleva in sostanza alla creazione di una nuova diocesi all'intemo di un'altra diocesi.
La stessa divergenza delle due zone emergenti, dislocate come lontane quinte verso le punte estreme della cittadina, ostentava visivamente la separazione ecclesiastico-giurisdizionale che contrapponeva i suoi abitanti fra i due diversi ambiti d'influenza. Così come fin dal loro primo affermarsi avevano costituito dei poli d'aggregazione del tessuto edilizio, trovando riscontro e proiezione sia nelle condizioni orografiche del luogo che nella estrinsecazione linguistica delle architetture, allo stesso tempo si erano pure risolte, come per una conseguenza più che naturale, in funzione di contrasto fra i ruoli delle stesse istituzioni, con il coinvolgimento territoriale e spirituale di tutta la cittadinanza.
Questa bipolarità costituì, pertanto, la più chiara espressione paradigmatica dell'antinomia che caratterizzò i rapporti intercorrenti fra le due massime autorità religiose, e vide vescovi e abati coinvolti in una lotta plurisecolare a difesa dei rispettivi privilegi giurisdizionali o per il possesso di beni da annettere alle rispettive diocesi. Il conflitto - che si concluderà in due tempi: nel 1717, con la sconfitta dell'istituzione monastica, la quale verrà aggregata alla mensa vescovile, e nel 1766, con l'assegnazione dei suoi beni esistenti fuori del territorio di Mileto all'Accademia delle Scienze di Napoli informò di sé, si può dire, quasi tutta la storia cittadina. Come se non bastasse, è ancora da tener presente la gran mole di liti che la Trinità sostenne con altre fondazioni latine. Come è noto, infatti, Ruggero aveva offerto ad altri ordini la possibilità d'insediarsi nella zona: e così un gruppo di canonici regolari agostiniani aveva fondato a Bagnara l'abbazia di S. Maria dei XII Apostoli, e S. Bruno di Colonia una certosa in mezzo ai boschi delle Serre, S. Stefano del Bosco. I benedettini miletesi si sentirono presto minacciati nei privilegi che derivavano loro da un diritto di priorità, giungendo fino a considerare come un furto qualsiasi altro contributo materiale assegnato a quelle istituzioni; lamentando continui sconfinamenti o usurpazioni territoriali da parte di quelle, accesero una sequenza di processi che tenne per secoli impegnati i tribunali ecclesiastici e civili. Furono tali contese, tristemente note, una delle cause principali del progressivo declino del monastero. Se, fino a tutto il XII secolo, i papi erano stati larghi di donazioni e privilegi verso la comunità, nel corso del secolo successivo invece dovettero intervenire non di rado, con lettere e legazioni, per appianare ora l'una ora l'altra controversia. Le liti iniziali più aspre furono quelle che videro la Trinità opposta, per motivi di carattere teologico e morale, all'abbazia greca di Rossano, S. Maria del Patir, il cui fondatore, Bartolomeo di Simeri, venne accusato di concussione e di eresia; e quella giurisdizionale sostenuta con il vescovo di Mileto circa l'appartenenza del Borgonovo, poi detto Monteleone (oggi Vibo Valentia), che l'imperatore Federico II - aveva ordinato al secreto Matteo Marcafaba di far sorgere su alcuni terreni che ricadevano sotto la giurisdizione dell'abbazia.
Le liti che coinvolsero la Trinità non finiscono qui. I vescovi di Mileto, sempre meno propensi a tollerare che l'abbazia si sottraesse alla loro giurisdizione, per lunghi secoli si sforzarono di recuperare, strappandolo all'abate rivale, tutto il prestigio perduto. Donde una spirale senza fine di liti, di diatribe e di cause, accese sui diritti d'uso e sulle reciproche competenze, in cui, da una parte, i vescovi sollecitavano dalla Curia di Roma la soppressione della diocesi abbaziale e, dall'altra, gli abati si arroccavano sempre di più sulle proprie posizioni per mantenere intatti tutti i loro privilegi. Non valeva certo a sedare il focolaio dell'incendio la bolla del 1179 di Innocenzo III che concedeva a Imberto, abate della Trinità, di poter fare uso di mitria e anello pastorale. A nulla valsero i tentativi della Sede Apostolica di por termine alla lotta intestina; le rivendicazioni aumentavano, gli incartamenti processuali si moltiplicavano e, in questa infuocata temperie, dall'una e dall'altra parte vennero persino compilati numerosi falsi pur di prevalere sulla parte avversa.
Una succinta esemplificazione delle altre liti, oltre a quella per la giurisdizione su Monteleone, conferma il fatto che, finché fu in piedi la SS. Trinità, entrambe le istituzioni non godettero fama di buon vicinato. La prima nacque al tempo del vescovo Ugo (1104 - 1110) intorno al possesso di alcuni territori e costrinse Pasquale II a ordinare a Lanuino, priore della certosa di S. Stefano del Bosco, di intervenire per riappacificare il vescovo e l'abate. Una ripresa delle liti si ha con il vescovo Anselmo (1168-1181) nei confronti dell'abate Imberto circa la giurisdizione di alcune chiese poste dentro la stessa cerchia di Mileto, ed alcuni villaggi del territorio (S. Gregorio, Cramastà, Arzona, Castellario e Bivona) e ad alcuni possedimenti e tonnare ricadenti nei territori delle diocesi di Mileto e di Squillace lite conclusasi con una transazione sanzionata da Alessandro III nel 1181. E poi, nel 1220 che Onorio III è costretto ad intervenire per dirimere la vertenza sorta tra il vescovo Ruggero (1216-1233) e l'abate del monastero di Valle Josaphat per il possesso della chiesa di S.Lorenzo di Arena. E, ancora, si trascinava virulenta la contesa su Monteleone e casali circostanti, contesa che andò avanti con alterne vicende finché nel 1287 il vescovo Saba Malaspina e l'abate del tempo, Ruggero, giunsero ad una convenzione, in base alla quale l'abbazia conservava "iura spiritualia casalium S. Gregrori, Cramestii, Bibonis et Larzonis", mentre il vescovo acquistava ogni diritto su Monteleone e sul suo territorio.
Con tale contesa siamo già entrati nel torbido e agitato periodo svevo. Le lotte che, alla morte di Guglielmo il Buono, si accesero fra i re usurpatori Tancredi e Guglielmo III ed Enrico VI e successivamente fra i capi tedeschi e l'imperatrice Costanza ebbero le loro ripercussioni anche in provincia, tra feudatari e istituzioni ecclesiastiche. Perturbazioni e usurpazioni si perpetrarono anche ai danni della chiesa di Mileto ai tempi dei vescovi Giovanni (1196-1198) e Nicola (1198-1207?). Più grave fu l'attacco portato alla cattedra miletese dal conte Anfuso di Rota di Tropea che, approfittando della vacanza seguita alla morte del vescovo Nicola, insieme con il fratello Riccardo, si rese colpevole di gravi soprusi, come quello di impadronirsi della torre campanaria della cattedrale nonché di alcune abitazioni appartenenti al vescovo ed ai canonici, e di altre prevaricazioni ancora più intollerabili come la distruzione del feudo di Karna e l'imprigionamento di alcuni canonici fatto a scopo ricattatorio. Il vescovo Pietro (1207 ?-1215) si rivolse allora al papa, Innocenzo III, che in data 27 agosto 1207 scrisse a Luca Campano, arcivescovo di Cosenza, e a Filippo, vescovo di Martirano, ordinando che intervenissero a reintegrare il vescovo miletese nei suoi diritti, pena la scomunica da comminare a entrambi i Conti.
Il periodo svevo, così come il suo inizio era stato segnato a caratteri di sangue, si concludeva con gli anni burrascosi seguiti alla morte di Federico II, alla venuta di Carlo d'Angiò e alle guerre con Corradino e Manfredi. In quegli anni sedeva sulla cattedra di Mileto Domenico I (1252-1281), che si trovò coinvolto nelle vicende politiche per aver aderito alla reggenza di Manfredi e per aver accettato l'invito - per paura, come lui stesso ebbe a confessare - a presenziare alla sua incoronazione a Palermo nel 1258, anche se poi effettivamente si astenne dal prendere parte alla cerimonia. Fu per questo che Alessandro IV lo esentò dalle sanzioni comminate nei confronti di coloro che avevano partecipato all'incoronazione. Morto però Manfredi (1266), ancora a motivo dei suoi rapporti con i partigiani dello stesso, venne sospeso dalle funzioni episcopali, per essere infine riabilitato da Gregorio X nel 1274. Successivamente il prelato parteggiò per gli angioini, tanto che Carlo I ne difese i diritti, confermando la giurisdizione spirituale dell'ordinario miletese sul territorio di Monteleone ancora in contrasto con la Trinità.Con questo vescovo siamo nel frattempo scivolati oltre le soglie del periodo angioino. Tale lunga fase della storia italiana (1266-1442), che fu contrassegnata da sanguinose vicende come la ventennale Guerra del Vespro (1282-1302) - che pose la Calabria al centro delle lotte e delle devastazioni - dalla lunga ed estenuante lotta fra Angioni ed Aragonesi, e da laceranti crisi come lo Scisma d'Occidente (1378 - 1417), vide sul soglio della cattedra miletese alcune vigorose figure di prelati, fra cui si distinsero Saba Malaspina (1286-1298), Manfredi Giffone (1311-1328) e Goffredo Fazzari (1328-1348). Al contempo registrò, a metà del XIV secolo, un episodio di mecenatismo alla corte dei Sanseverino, conti di Mileto, che consentì il prodursi di una delle più originali espressioni artistiche nell'ambito della scultura trecentesca.
Per quasi un secolo la Calabria fu teatro dello scontro fra Angioini e Aragonesi, scontro che, iniziatosi dopo la sollevazione del Vespro del 31 marzo 1282, aveva per posta il possesso definitivo della Sicilia. Durante tale conflitto, la città di Mileto, come del resto qualsiasi altro centro importante della Calabria, fu di volta in volta favorevole al partito angioino oppure a quello aragonese. "Anche l'alto clero", scrive A. Placanica, "aveva partecipato e partecipava in prima linea al conflitto: dall'arcivescovo Ruggero di Stefanizia che contrastava i siculo- aragonesi difendendo con le armi Santa Severina, al vescovo di Cosenza che aveva ostacolato lo schieramento svevo sino alla morte di Manfredi, dal vescovo di Martirano che veniva fatto prigioniero durante l'assedio di Augusta, al decano di Mileto Saba Malaspina (poi autore della celebre Rerum Sicularum Historia), preso prigioniero durante l'occupazione della città, e che di quei tristi tempì di Calabria avrebbe lasciato traccia vivacissima nella sua opera, con uno scrupolo appena velato dal fondamentale guelfismo".Saba, decano del capitolo, venne eletto vescovo di Mileto nel 1286, quando già aveva composto l'Historia. Quando le truppe catalane occuparono la cittadina, egli venne privato di tutto e catturato. Riuscito ad evadere e a rifugiarsi nei territori controllati dagli angioini, fu soccorso dal papa Nicolò Il che gli assegnò l'amministrazione della diocesi di Larino. Nel 1296, in seguito all'ordine di Bonifacio VIII che imponeva a tutti i vescovi esuli del Regno di Sicilia di accettare la pace e di riconoscere Carlo III d'Angiò per re di Napoli e Giacomo d'Aragona per re di Sicilia, rientrò nella sua sede. Durante il governo di Saba si ebbe, come si è precedentemente accennato, la definitiva soluzione della vertenza circa la giurisdizione spirituale su Monteleone ed altri villaggi della diocesi, per la quale Monteleone rimase da allora in poi in pacifica giurisdizione del vescovo di Mileto.Altre beghe di natura giurisdizionale dovette sopportare il vescovo Manfredi Giffone con l'abate della Trinità, e i litigi, sorti per varie cause, ebbero ripercussione presso la corte di Napoli, finché nel 1319 il papa Giovanni XVII non incaricò il vescovo di Tropea di comporre la vertenza. Ma la figura di questo prelato, persona ragguardevole e influente, di nobile famiglia, è nota per le vicende legate alla sua contrastata elezione alla cattedra di Mileto. Manfredi, in quanto antiangioino, era inviso al re Carlo II, il quale, perciò, respinse la designazione fatta dal capitolo della cattedrale di Mileto, in virtù di una concessione generale avuta dal papa Niccolò IV di poter rifiutare il suo beneplacito a chiunque non fosse a lui fedele. Venne pertanto eletto, in luogo di Manfredi, Andrea, che fu vescovo dal 1298 al 1312. Morto Andrea e succeduto nel frattempo a Carlo il re Roberto d'Angiò (1309-1343), venne nuovamente designato il Giffone, il quale, per conto suo, si era già avvicinato al partito angioino. Manfredi fu quindi ordinato ad Avignone, ed è probabile che, unico prelato calabrese, abbia preso parte al Concilio di Vienna dell'ottobre del 1311.Risale a questi anni (anteriormente al 1337) l'assegnazione della contea di Mileto a Ruggero Sanseverino fatta da Roberto d'Angiò in riconoscimento dei servigi e delle prestazioni da quello offertigli. Lo stesso re annoverava tra i suoi consiglieri e confidenti il miletese Goffredo Fazzari; dopo la morte del re, questi, nel disordine e nel caos verificatisi durante gli anni della minore età di Giovanna I, divenne sostituto e consigliere del balio del regno, cardinale Almerico di Chatelus. Nel 1328, venne elevato alla cattedra vescovile miletese, che resse per un ventennio, e durante il suo episcopato ebbe diversi incarichi dalla regina Giovanna e dal papa Clemente VI.
Del Fazzari si conservano, nel museo di Mileto, cospicue testimonianze provenienti dal portale maggiore della cattedrale, che egli fece decorare, intorno al 1345, dal maestro Antonio di Napoli, nonché la propria lastra sepolcrale ad altorilievo, eseguita nel 1339 ed attribuibile, a parere di A. Negri Arnoldi, al c.d. Maestro di Mileto, il quale, attorno agli anni 1330-1340, lavorava ai sarcofago dei Sanseverino.Ruggero Sanseverino aveva fatto costruire una graziosa cappelletta, collegata direttamente con l'abside maggiore della cattedrale, dedicandola alla SS. Annunziata; questa era destinata a custodire i sarcofago che avrebbero dovuto accogliere le proprie spoglie mortali nonché quelle della prima moglie, Giovanna d'Aquino, ma che invece vennero poi utilizzati per altri membri della casata.
I due sarcofagi sono pervenuti fino a noi in forme frammentarie, e attualmente, dopo essere stati ricomposti, sono esposti nel museo statale. Del sarcofago di Ruggero si conservano una lastra frontale con la Vergine e cinque Santi (originariamente sei), una lastra con cavaliere giacente e tre figure acefale di Virtù; al monumento di Giovanna appartengono la lastra frontale con il Cristo in pietà e quattro Santi, ed una laterale con una Santa martire. La figura del Maestro di Mileto è caratterizzata da una forte personalità, di formazione locale, ed è stata individuata e studiata dal Negri Arnoldi, che ne ha sagacemente indagato e ricostruito il percorso artistico, svoltosi fra Catania e Mileto e forse conclusosi a Napoli". Il Maestro, pur denotando una cultura statica ed arcaizzante, si rivela dotato di una precisa individualità artistica, certo non eccelsa, ma connotata da uno stile robusto ed originale. L'ultima fase del periodo angioino fu segnata da vicende tristemente negative. La fine dello Scisma (1417) non segnò la fine dei mali che travagliavano in questi anni la chiesa. Ai soprusi del baronaggio si aggiunsero altre piaghe, quali l'introduzione della commenda, che si rivelò esiziale per i monasteri e i conventi, e la concessione delle diocesi in amministrazione a prelati di curia non residenti- fenomeni che divennero frequenti a partire dalla seconda metà del Quattrocento. Il panorama della Calabria sotto l'aspetto politico e socioeconomico acquistò tinte drammatiche, nonostante la lieve ripresa sotto Alfonso il Magnanimo (1442-1458), per l'eccessivo fiscalismo stabilitosi con Ferrante I (1458-1494) e per i tralignamenti del potere inarrestabile dei baroni che in questo periodo aveva raggiunto il suo culmine.
Durante la congiura dei Baroni (1485-87), i Sanseverino dei vari rami di Calabria, Mileto inclusa (Carlo Sanseverino, conte di Mileto, era fra i più attivi), costituirono una delle forze maggiori dei congiurati. Nella repressione sanguinosa che seguì al fallimento della congiura, la città di Mileto subì la stessa sorte delle città che si erano ribellate alla Casa d'Aragona, registrando nella sua cerchia nuove violenze e nuove efferatezza dopo quelle che si erano avute a partire soprattutto dal 1420, quando il contado miletese era stato messo a ferro e fuoco dai soldati di Giovanna I, e continuarono via via con le vicende rivoltose dei Centelles.In tutto questo periodo, l'estrema decadenza dei monasteri greci è affrescata nella sua degradante rovina materiale e morale da A. Calceopi1o che li visitò negli anni 1457-58; non altrettanto ma pure notevole è la decadenza raggiunta dai monasteri latini, divorati dai commendatari che li spogliavano dei beni e abbandonavano i monaci alla miseria e all'ignoranza, e quella delle chiese vescovili, condannate ad un governo di amministratori lontani e avidi solo di benefici e commende. Così, nel novero dei vescovi miletesi di questi anni, solo A. Sorbilli (1437-1464) visse a Mileto e si occupò fattivamente della diocesi, istituendo una scuola di grammatica e di canto per 12 fanciulli prefigurando la formazione di un seminario in anticipo rispetto al Concilio di Trento.Se Domenico II (1408-1437) fu a Mileto soltanto per brevi soste, perché trattenuto lontano dalla diocesi a causa delle vicende provocate dallo Scisma ma anche perché incaricato di portare a compimento missioni apostoliche varie, altri ne vissero del tutto lontani: Corrado Caracciolo (1402-1408) pare che non abbia mai messo piede in territorio miletese; di Cesare Caetano (1464-1473), consigliere del re Ferdinando d'Aragona, e di Narciso di Verduno (1473-1477) è pure dubbio se siano venuti personalmente in diocesi e altrettanto può dirsi di Antonio de Pazzi (1477-1480), fiorentino, impegnato a dare la caccia ai benefici ecclesiastici; per finire con Giacomo della Rovere (1480-1504), nipote del papa omonimo, del quale si può ugualmente affermare che abbia poco dimorato in diocesi.Unica, grande luce per la città di Mileto fu in questo triste cinquantennio, sul piano artistico, la luminosa dilatazione che traspare dalle forme spaziose e chiare della Madonna delle pere di Paolo di Ciacio (ora nel museo di Altomonte), nativo di Mileto ed allievo di Antonello da Messina intorno al 1457, che appunto da una delle opere più culturalmente progredite del maestro seppe prendere le mosse per questa stupenda tavola. Ma questa sola luce non ha nulla a che vedere con la trama di ombre che in questo periodo oscura la cattedra vescovile miletese e, con essa, la Calabria intera.

Madonna delle pere di Paolo di Ciacio, museo di Altomonte (CS)

La bibliografia potrà essere consultata nel testo di AA.VV." Mileto nel contesto storico - culturale...", Ed. Pro Loco, 1999 (Mileto).

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